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Stage Triskell

Cenni di storia

I Celti in Friuli
di Cristiano Brandolini

partner del Triskell con ASD Insubria Antiqua

Il Friuli è sicuramente un punto di riferimento per l’altomedioevo, per la storia dei Longobardi, dall’Historia Langobardorvm scritta da Paolo Diacono, fino a Cividale primo ducato del regno.

Ma il Friuli ha una gloriosa storia ben più antica, legata ad un popolo che nulla ha da invidiare ai grandi Longobardi: i Celti Carni.

I Carni erano un popolo di lingua e cultura celta stanziato prevalentemente nell’area che oggi porta il loro nome, la Carnia. Si hanno testimonianze di un loro stanziamento in questa zona a partire dal IV secolo a.C.

Originari delle pianure tra i fiumi Reno e Danubio, i Carni migrarono e si insediarono, intorno al 400 a.C., nell’odierno Friuli, Stiria, Carinzia e Slovenia nord-occidentale, valicando le Alpi al Passo del Monte Croce Carnico, al tempo ancora sconosciuto ai Romani, tant’è che lo storico Tito Livio, parlando appunto dell’arrivo dei Carni scrive “… per saltus ignotæ antea viæ transgressi…” [Annales 39,45].

Anche lo storico Strabone, colloca i Oi Kàrnoi, ovvero i Carni, “sopra e di là dei Veneti”, stanziati quindi presso il Golfo Adriatico, a sud delle Alpi Orientali, legando la stessa Tergeste (Trieste), ai Carni definendola “villaggio carnico”: “…Tergheste komès Karnikès.” [Geografia VII-5,2].

Entrarono ben presto in contatto con le popolazioni a loro vicine, in particolar modo con i Veneti e i Reti.

Carnia, Carniola, Carinzia e Carso, devono il loro nome proprio a questi Celti giunti da oltralpe.

Molte sono le testimonianze archeologiche che ci raccontano la storia e le abitudini dei Carni, provenienti dalle necropoli di Misincinis, Paularo, Verzegnis, Amaro, Raveo, Lauco e Tolmezzo, inoltre sono state rinvenute alcune monete d’argento presso la chiesa di S. Pietro di Carnia, sul Plan da Vincule, risalenti al III secolo a.C.

ipogeo celtico

nella foto, Ipogeo Celtico di Cividale (UD)

Il Nordic Grog, mito o realtà?
di Cristiano Brandolini

partner del Triskell con ASD Insubria Antiqua

Ancora oggi, se andiamo in vacanza sull’isola di Gotland in Svezia, potremmo trovare in qualche pub una bevanda simile ad una birra, chiamata Grog.

Ma il Grog oggi è anche conosciuto per essere una bevanda non molto alcolica composta da acqua e rum, introdotta nella Royal Navy il 21 agosto del 1740. I marinai chiamarono la bevanda annacquata grog prendendo spunto dal nomignolo del suo inventore, l’ammiraglio Edward “Old Grog” Vernon, chiamato così per il cappotto di grogram (grogrè in Italia) che indossava.

Ma il vero Grog, o Nordic Grog cos’era?

Era originariamente l’antica bevanda dei Goti e nulla aveva a che fare con ciò che bevevano i marinai inglesi del settecento o ad una birra moderna.

Le storie nordiche ci raccontano che il Grog non era solo una bevanda alcolica, ma era utilizzata anche come medicinale. I Greci chiamavano il Grog con la denominazionde di Proxima Thule, e qualche notizia ci è giunta anche dai Celti del nord Europa, tramite le descrizioni romane. Una bevanda alcolica, probabilmente fermentata, composta da più ingredienti.

Di fatto, di questa bevanda si è sempre saputo poco, riguardo la sua composizione e preparazione.

Presumibilmente era una bevanda molto comune tra Goti e Winnili, nonchè tra i Vichinghi, ma probabilmente ebbe estimatori anche tra i Celti che si affacciavano sulla Manica e che avevano contatti sul Mare del Nord.

Tramite gli scritti lasciati dalgli storici greci e latini noi oggi sappiamo con certezza che i Celti e le popolazioni germaniche e nord europee, producevano e consumavano birra (Dionigi di Alicarnasso scerzosamente definì la birra come un intruglio di orzo decomposto in acqua).

Sappiamo che i Celti e le popolazioni germaniche e nord europee, producevano e consumavano idromele (Diodoro Siculo descrive questa bevanda come un lavaggio di favi).

Ed in fine sappiamo che i Galli cisalpini producevano, consumavano ed esportavano vino di qualità (Diodoro Siculo scrisse che i rozzi contadini e montanari del nord bevevano il loro vino puro, senza essere diluito - ovviamente un anatema per qualsiasi romano o greco), ma come detto, del Nordic Grog abbiamo scarse e confuse descrizioni.
Fortunatamente però, l’archeologia moderna è riuscita a colmare in parte questo vuoto.

Negli ultimi decenni, ci sono state cinque indagini archeologiche effettuate tra Danimarca e Svezia, che hanno restituito importanti elementi riferibili a questa leggendaria bevanda alcolica.

Nandrup e Egtved in Danimarca, Kostræde sull'isola di Sjælland, Juellinge sull'isola di Lolland e Havor sull'isola svedese di Gotland.

In tutti i casi, sono stati rinvenuti elementi databili tra il 1500 e il I secolo a.C.

Il più antico è un vaso in una sepoltura di guerriero, in un tumulo situato nella Nandrup, nella regione dello Jutland, nord-ovest della Danimarca, risalente al II periodo dell’età del Bronzo Nordica (1500-1300 a.C. circa).

L’interno del vaso, dalla base fino a metà corpo era coperto con un residuo scuro, del quale ne sono stati recuperati due piccoli campioni, ed esaminati al microscopio.

Questo residuo era interamente composto da pollini di tiglio, e trifoglio bianco.

A Egtved nello Jutland, in una sepoltura di una giovane donna sacerdotessa, incredibilmente ben conservata, si rinvenne un secchio in corteccia di betulla, risalente al II periodo dell’età del Bronzo Nordica (1500-1300 a.C. circa).

Sul fondo del recipiente, vi era presente un residuo omogeneo le cui analisi definirono essere composto da mirtilli rossi di palude, chicchi di grano, filamenti di mirto di palude, polline di tiglio, meadowsweet (Filipendula Ulmaria) e trifoglio bianco.

In un tesoro a Kostræde, a sud ovest di Copenhagen, si rinvenne un recipiente metallico con fondo forato (filtro), risalente al Bronzo Tardo Nordico (1100-500 a.C. circa).

Anche questo recipiente all'interno conservava un residuo.

È stato campionato un piccolo frammento rimuovendolo da uno dei fori del filtro, evidentemente un residuo di filtrazione del liquido.

Il filtro conteneva resti di resina di betulla, cera d’api, resina di pino, acido azelaico (probabilmente un derivato di acido oleico, che si trova in una varietà di piante, ma potrebbe anche provenire da cereali come frumento, segale e orzo), ginepro, mirto di palude, uva da vino ed eucaliptolo, artemisia, mirtillo e rosmarino.

A Juellinge, sull'isola di Lolland, sud-est Danimarca, tra gli elementi di corredo di una tomba di una donna di alto rango, si rinvenne una grande situla in bronzo, risalente al 200 a.C. circa.

Nella sepoltura vi erano presenti elementi da mensa per vino tra cui la situla, al cui interno vi era posto un mestolo.

All’interno la situla conservava sul fondo un residuo relativamente omogeneo che è stato campionato ed analizzato.

Conteneva resti di orzo, mirtilli di palude, mirtilli rossi, ginepro, achillea, uva da vino, mirto di torbiera e lievito.

A Havor sull'isola svedese di Gotland si rinvenne un filtro a manico lungo in bronzo, solitamente usato per il vino, risalente all'età Romana (I secolo d.C.).

Anche in questa sepoltura vi erano presenti elementi da mensa per vino, tra cui il filtro in bronzo.
All'interno del filtro vi era un residuo conservato all'interno e attorno i fori, che è stato campionato ed analizzato. Conteneva resina di betulla, uva da vino, eucaliptolo e altri prodotti vegetali non meglio definiti.

Gli studi archeologici, combinati a quelli biomolecolari e archeobotanici, riferiti ai cinque siti in Danimarca e Svezia, datati tra il 1500 ca. a.C. e il I secolo d.C., presentano un quadro coerente di come i popoli nordici concepivano e producevano le loro bevande fermentate.

In generale, essi preferivano consumare una bevanda ibrida, il “Grog”, in cui i vari ingredienti erano o potevano essere stati fermentati insieme, compresi il miele disponibile localmente, la frutta di produzione locale (come ad esempio i mirtilli di palude e i mirtilli rossi), i cereali (grano, segale, orzo), e talvolta vino importato dal sud Europa.

Dopo tutte queste analisi si è giunti alla conclusione che il Grog fosse una bevanda alcolica, fermentata, a base di vino, miele di tiglio e trifoglio bianco (probabilmente idromele), mirto di palude, mirtillo nero e rosso, cereali (probabilmente birra), resina di betulla e di pino, ginepro, eucaliptolo, achillea, filipendula ulmaria, rosmarino, frutta.

Un’unica fermentazione, anziché fermentazioni separate di ciascuna bevanda con successiva miscelazione, questo probabilmente per mantenere una migliore conformazione della bevanda aggiungendo ad un certo punto (durante il processo di fermentazione), bacche di ginepro disponibile localmente, linfa di betulla, eventualmente resina di pino (a meno che non fosse arrivata attraverso il vino importato dall’Europa centro-meridionale) e erbe, in particolare mirto e achillea, le quali potevano anche essere state aggiunte e mescolate alla bevanda, come dolcificanti o aromatizzanti dopo la fermentazione o quando la bevanda era servita.

Lo studio ha evidenziato anche l’esistenza di un commercio di vino dal Sud Europa verso l’estremo nord, risalente al 1100 avanti Cristo, tramite apposite vie e scambi commerciali attraverso l’Europa, sfatando ciò che Greci e Romani asserivano, definendo i territori nord europei, popolati da rozzi barbari.

Il Grog venne progressivamente soppiantato dal vino proveniente dall’Europa meridionale, ma senza farlo scomparire del tutto.

Ancora oggi nell’isola svedese di Gotland nel mar Baltico viene prodotto una sorta di Grog, una bevanda alcolica chiamata Gotlandsdricka (la bevanda di Gotland).

Si tratta di una birra che oltre ai cereali maltati e luppolo, contiene ginepro e miele, dal gusto molto dolce e con una gradazione alcolica compresa tra i 5 e i 13° Vol.

La Birra nell'Antichità
di Cristiano Brandolini

partner del Triskell con ASD Insubria Antiqua

Nel celebre film “Robin Hood. Il principe dei ladri” interpretato da Kavin Costner, frate Tac spiega ai bambini della Foresta di Sherwood che “... il grano ci è stato dato da nostro Signore per produrre... la birra!”
La maggior parte delle persone, quando parlano di birra pensano ad un prodotto tutto sommato recente, importato nell’economia alimentare attuale dai tedeschi o comunque da popoli nord europei, ma non è così.
La birra infatti è annoverata tra le più antiche bevande alcoliche che l’uomo ha prodotto. Innanzitutto due parole sull’etimologia del nome: la parola birra deriva dal latino bibere (bere), e la radice della parola spagnola cerveza deriva da Ceres, la dea greca dell’agricoltura. In celtico la birra era detta brito o briton da qui il nome proprio di persona Britomaro forse legato appunto al mestiere di produrre birra.
Le origini della birra risalgono a circa 13.000 anni fa, quando l’uomo passò da nomade a stanziale e iniziò a coltivare cereali come il frumento. Le prime testimonianze sulla preparazione di una bevanda simile alla birra risalgono ai Sumeri e quindi all’incirca a 6.000 anni fa come testimonierebbe il bassorilievo che rappresenta orzo e pane cotto e poi inumidito nell’acqua a formare una poltiglia e infine una bevanda con la proprietà di “fare stare bene chi la beveva”. La produzione viene affinata dai Babilonesi, poi esportata in Egitto, e gli stessi egiziani divennero grandi produttori di birra migliorando la tecnica e il gusto del prodotto. L’importanza della birra nell’antico Egitto fu tale che spinse gli scriba a coniare un nuovo geroglifico che indicava il “mastro birraio”.
La birra si può ricavare dalla fermentazione di qualsiasi cereale. Oggi si predilige l’orzo, ma in passato si usava un po’ di tutto, dal farro all’avena. Ancora oggi nelle Fiandre si produce una birra, la Tripel Karmeliet, secondo un’autentica ricetta del 1679 originaria dell’antico Monastero Carmelitano di Dendermonde, che prevedeva l’uso di tre cereali: orzo, ma anche frumento e avena. Molte prove di fermentazione condotte in birreria hanno confermato che questa particolare combinazione tradizionale di cereali rimane ancora la migliore.
Nel nord Italia la birra era ben conosciuta ancor prima dell’arrivo del vino etrusco e romano. Già i Celti Insubri Golasecchiani, in età protostorica, producevano birra e in alcuni casi già con piccole dosi di luppolo.
La più antica testimonianza di produzione in Europa è sul suolo germanico e risale all’800 a.C. È costituita da un’anfora e dai resti di un vero e proprio birrificio, rinvenuti vicino a Kulmbach nel nord-est della Baviera. I ritrovamenti relativi alla birra dei Celti nel nord Italia, sono pochi ma significativi. Uno su tutti è quello che riguarda la necropoli golasecchiana della metà del VI secolo a.C. scavata a Pombia (No) nel 1995. Qui una tomba miracolosamente intatta ha restituito agli archeologi, oltre al classico corredo un bicchiere globulare, il cui fondo conservava un deposito rossastro simile a sabbia finissima. Si trattava dei resti liofilizzati di una bevanda fermentata a base di cereali, quasi certamente birra rossa, ricavata da orzo e altri cereali e infiorescenze di luppolo assieme ad altre erbe aromatiche.
L’utilizzo del luppolo come usuale ingrediente nella produzione di birra era finora testimoniato solo a partire dagli scritti di Hildegarde von Bingen, ossia nell'XI secolo. La birra degli antichi era molto diversa da quella a cui siamo abituati noi oggi, e forse non riusciremmo nemmeno a berla. Era acidula, affumicata e molto pastosa in bocca, completamente piatta, priva di schiuma e servita a temperatura ambiente.
Nel medio evo le tecniche di produzione compirono passi da gigante e la bevanda iniziò progressivamente a divenire sempre più simile a quella che noi oggi beviamo. Dalla preistoria fino al Medioevo il processo di birrificazione era ad appannaggio delle sole donne. Poi questa prerogativa svanì man mano che la birra cominciò ad esser prodotta nei monasteri (belgi e olandesi in primis) e divenne quindi un’attività prettamente maschile.
I monaci migliorarono il gusto ed i valori nutritivi delle loro birre arrivando a un consumo pro capite giornaliero, consentito dalle loro regole, di 5 litri. Le eccedenze erano smerciate fuori e così anche la birra iniziò a ridiffondersi fuori dalle mura dei conventi. Non passò molto e i regnanti, intuendo i grossi guadagni che si potevano fare sul commercio della birra, cercarono di sottrarre l'esclusiva ai monaci per imporre le tasse. Nel 1516 Guglielmo IV duca di Baviera promulgò la Legge Germanica di Purezza della Birra, stabilendo che per la produzione fossero impiegati esclusivamente orzo, luppolo ed acqua pura.
Con le innovazioni tecnologiche apportate dallo sviluppo industriale nell’800, si ebbe un definitivo cambiamento nella produzione: il motore a vapore permise di ottenere maltature a basse temperature e quindi la nascita delle birre chiare tipo pils, e la refrigerazione artificiale, che consentì la consumazione di birra fresca anche in estate. Successivamente si iniziò a lavorare anche sulla carbonatazione e quindi sulla frizzantezza del prodotto finale e sull’utilizzo dei lieviti, fin’ora sconosciuti, infatti la fermentazione spontanea del mosto era vista come un qualcosa di magico, di divino, sostanzialmente inspiegabile. Oggi si producono ancora birre con fermentazioni spontanee, ma la maggior parte delle birre che beviamo sono prodotte con lieviti accuratamente selezionati.
Beh, penso che ora sia proprio il caso di andare a farsi una birra. E come è usanza in Bretagna, facciamo cozzare le nostre pinte esclamando “Yec’hed mat” alla salute"
!

IDROMELE. NETTARE DEGLI DEI O POZIONE MAGICA DI ASTERIX?
 

di Cristiano Brandolini

partner del Triskell con ASD Insubria Antiqua


Chiudete i vostri occhi e con la mente tornate a tempi antichissimi, immaginate di stare in un luogo sacro, circondato da quercie, dove i druidi sono intenti ad officiare riti in onore delle divinità.
Banchettare con cibo delizioso annaffiato da grandissime bevute di idromele versato copiosamente in immensi corni potori: ecco, è con questa scena che intendo farvi iniziare questo breve viaggio nella storia di questa intrigante e antichissima bevanda chiamata “idromele”.
L'idromele o idromiele, dal greco hỳdor (acqua) e méli (miele), è la più antica bevanda alcolica prodotta dall'uomo in Europa, e tra le più utilizzate nel mondo antico, prima che la diffusione della vite, nel bacino del Mediterraneo, introducesse l'uso del vino.
In epoca preistorica si diffuse ampiamente in tutte le pianure l'Europa settentrionale e orientale, anche nelle zone climatiche fredde.
Il miele sommato all'acqua sono gli elementi base dell'idromele.
L'ape, sacro animale e messaggero celeste che trasforma il sole in miele, e la sacralità dell'acqua quale linfa vitale che scorre nelle vene della madre terra, rendono l'idromele sacro presso i Celti, come essenza del divino nell'unione fra cielo e terra. Nella mitologia indoeuropea, l'idromele è la bevanda tipica dell'aldilà, nel mondo celtico come in quello germanico, ed è simbolo di immortalità.
Nell'Europa celtica (IX-I sec. a.C.) esso era bevuto dai Druidi e dalle tribù nelle quattro grandi cerimonie sacre che scandivano il ritmo delle stagioni (Imbolc, Beltane, Lugnasad, Samonios).
L'idromele era una bevanda così comune tra gli scandinavi e nella cultura celtica da essere annoverato in numerosi racconti e poemi mitologici, come ad esempio nella mitologia norrena, dove anche se non perfettamente credibile in quanto di tradizione orale, l'idromele è un elemento centrale.
E da dove prende il nome la famosa “luna di miele” dei novelli sposini? Dai Vichinghi e dal fatto che per loro era uso comune durante il mese lunare successivo al matrimonio, bere appunto idromele per far si che il futuro nascituro diventasse forte e sano ma soprattutto maschio!
Molti sono i ritrovamenti archeologici riferiti a questa bevanda, in molte tombe principesche dell'Europa del VI-IV secolo a.C. sono stati trovati recipienti con resti d'idromele quale riserva del defunto per il Sidhe, l'aldilà celtico, come ad esempio nella tomba del principe di Hochdorf, in Germania nel Baden-Wurttemberg (VI sec. a.C.), dove tra gli oggetti straordinari del corredo funerario sono venuti alla luce 17 corni potori, e un calderone in bronzo, della capienza di 500 litri, riempito al momento della deposizione nella tomba, per tre quarti d'idromele il quale ha lasciato un notevole deposito sul fondo che si è conservato fino ai giorni nostri. La scelta di riporre tale bevanda nelle ricchissime sepolture principesche hallstattiane non è un caso, dimostra quale fosse il valore simbolico di immortalità dell'idromele, la sua raffinatezza e preziosità.
L'idromele viene descritto dagli antichi come una bevanda spumeggiante, potremmo dire che era il loro superalcolico; non a caso non è mai stato “bevanda da pasto”, ma piuttosto la bevanda rituale con cui aspergere i sacrifici prima del fuoco purificatore o, grazie al suo alto grado alcolico, il tramite per ottenere l'ebbrezza alcolica per potersi avvicinare al divino fino ad incontrarlo durante i riti religiosi; ma era anche componente della panacea, la bevanda che curava tutti i mali sia del corpo che dello spirito.
Ma quando l'uomo iniziò a produrre l'idromele? e con che procedimento?
Che l'idromele sia una bevanda molto più antica della birra o del vino lo si può ipotizzare pensando al fatto che per fare il vino l'uomo primitivo ha dovuto innanzitutto da nomade fermarsi e divenire stanziale, imparare a coltivare i cereali o la vite e solo dopo casualmente scoprire che dai pani, o dal succo di quel grappolo poteva ricavare una bevanda inebriante; per l'idromele invece non ha dovuto imparare ad allevare le api, ma era già raccoglitore di miele da sciami selvatici da tempo immemore e non ha dovuto costruirsi il recipiente di terracotta per la fermentazione, perché aveva già a disposizione il primitivo ma funzionale otre di cuoio, il contenitore per eccellenza delle popolazioni nomadi.
Molto semplice anche il processo produttivo, infatti tutti gli apicoltori sanno che per togliere i residui di miele dai favi strizzati il sistema più semplice è immergerli in acqua: il miele si scioglie istantaneamente. Una volta fatta questa operazione, la miscela di acqua e miele inizia a fermentare da subito, naturalmente, ad opera dei lieviti presenti nel miele stesso ed è già bevibile.
Al giorno d'oggi molti apicoltori francesi si divertono a vendere l'idromele come la bevanda di Asterix. Nel fumetto come ben sappiamo non si parla di idromele, ma esso viene paragonato dagli apicoltori odierni alla “pozione magica”. Effettivamente, riflettendoci si possono trovare analogie tra la pozione magica e l'idromele: entrambe vengono fatte bollire, in entrambe vengono messi a bollire sostanze aromatizzanti, erbe e spezie nell'idromele, e ironicamente un sacco di altre cose nella pozione magica, ma soprattutto sia la pozione magica sia l'idromele con il suo rilevante contenuto alcolico danno il coraggio di affrontare il nemico in battaglia.
Ritornato a noi grazie ai numerosi festival celtici e alla riscoperta della cultura anglosassone e scandinava, l'idromele con diversi nomi e con diverse modalità, ha ripreso a scandire i passaggi stagionali dei solstizi e degli equinozi, anche qui nel nostro paese ed ha seguito gli anglosassoni in America e Canada, dando origine al maggiore concorso di idromeli artigianali, il “Mazer Cup”, che si svolge negli Stati Uniti.
Molti oggi sono i paesi che producono idromele, possiamo trovare questa bevanda chiamata con nomi diversi da zona a zona, o semplicemente per la differente speziatura che hanno.
Ad esempio in Bretagna è chiamato Chouchen o Mez, in Inghilterra e Irlanda ve ne sono diversi, quello tradizionale è chiamato Mead, nei paesi germanici e scandinavi è chiamato Med o Met.
Nettare degli dei o pozione magica che sia, l'idromele è e rimane una bevanda che da sempre accompagna l'uomo nel suo cammino terreno.


Alzate i corni potori e buon brindisi a tutti!

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